In uno Stato di diritto quello della violenza nelle carceri costituisce uno dei temi più complessi e delicati da affrontare.
Il diritto penale ha una primaria funzione di garanzia del cittadino, anche di chi delinque, nei confronti dell’autorità pubblica e tale funzione di garanzia è espressa chiaramente in Costituzione dall’art. 13 Cost,comma 4, in cui si dispone che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Il costituente anticipa valutazioni politico - criminali rimesse solitamente al legislatore, con “la consapevolezza degli arbitri e delle violenze che, soprattutto da parte della polizia, erano stati perpetrati sotto il regime fascista”.
Dunque uno Stato di diritto nell’operare contro il crimine e nell’attendere ai suoi compiti di prevenzione generale e speciale dei reati, deve agire secondo regole di umanità e correttezza che impongono l’uso della forza solo se funzionale all’obiettivo da perseguire e nei limiti della proporzionalità.
L'INTRODUZIONE DEL REATO DI TORTURA NEL CODICE PENALE
Dopo oltre trent’anni di distanza dalla ratifica della Convenzione ONU del 1984, con la legge del 14 luglio 2017 l’Italia ha finalmente introdotto nell’ordinamento penale comune il delitto di tortura.
Prima che il Parlamento approvasse la legge 110/2017, che ha introdotto l’art. 613 bis nel nostro codice penale, tutti i casi di tortura c.d. di Stato potevano essere ricondotti alle sole fattispecie di percosse, lesioni, minacce, abuso di mezzi di correzione, arresto illegale.
L’iter parlamentare che ha condotto all’approvazione di tale legge ha subito una significativa accelerazione grazie alla sentenza Bartesaghi, Gallo e alti c. Italia resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 22 giugno del 2017, con cui nell’ambito di una vicenda verificatasi durante il G8 genovese del 2001, si è condannata l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, segnalando anche la carenza degli strumenti legislativi previsti dall’ordinamento interno per evitare torture e casi limite di trattamenti inumani e degradanti delle forze di polizia.
Dunque se prima dell’introduzione del reato di tortura, la violazione dell’art. 3 CEDU poteva rilevare esclusivamente ai fini della responsabilità dello Stato dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, oggi la predetta violazione rileva come fatto costituente reato ai sensi dell’ordinamento interno e delle norme sovranazionali ( art. 3 CEDU; Convenzione ONU 1984) dovendosi ricomprendere nella nozione di norme sovranazionali, oltre alle disposizioni convenzionali, anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e dovendosi recepire la nozione di tortura in termini che abbraccino non solo il suo significato stretto, ma anche quello più ampio di trattamento inumano e degradante. Questo significa che i trattamenti inumani e degradanti vagliati dai Giudici di Strasburgo sotto il profilo della responsabilità di Stato, oggi vengono in rilievo in chiave di responsabilità individuale in capo a quei soggetti che abbiano reso possibile pur potendo o dovendo evitarlo, o che abbiano determinato con i propri atti, un trattamento inumano e degradante ai danni di una persona privata della libertà personale.
QUANDO E' LEGITTIMO IL RICORSO ALL'USO DELLA FORZA
Nel nostro ordinamento il ricorso alla coazione fisica da parte delle autorità pubbliche è legittimato solo in determinate ipotesi previste per legge.
L’art. 53 c.p. infatti prevede che non sia punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica in tre ipotesi e cioè nel caso abbia la necessità: di respingere una violenza o di vincere una resistenza, attiva all’autorità; impedire la consumazione di una serie di gravi delitti; o nelle ipotesi previste da altre leggi speciali, alle quali fa rinvio l’ultimo comma dell’art. 53 c.p.
Ed ancora l’art. 41 Ord. pen. prevede che: “Non è consentito l'impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all'esecuzione degli ordini impartiti .Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti o degli internati deve immediatamente riferirne al direttore dell'istituto il quale dispone, senza indugio, accertamenti sanitari e procede alle altre indagini del caso. Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può far ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto. L'uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario. Gli agenti in servizio nell'interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore”.
Fuori però dai casi in un cui la coercizione fisica è giustificata dall’ordinamento, gli agenti che ricorrendo alla forza ledono o comunque metto in pericolo l’integrità psico-fisica o la dignità dei soggetti sottoposti alla loro custodia possono essere chiamati a rispondere penalmente.
Il divieto giuridico di tortura, deve dunque essere considerato come un argine alla crudeltà umana che può esplicarsi nei confronti del detenuto, in quanto il sacrificio della libertà personale, qualunque ne sia la ragione, impone sempre il rispetto della dignità umana.
Dott.ssa Selene TANZI